Giù nella Notte

Racconto inserito nell'antologia "Come Marylin Monroe" - 2018 Sensoinverso Edizioni
Giù nella Notte

INCIPIT

Bocciato.
La scritta rossa accanto al mio nome. L’unica scritta rossa in tutto il tabellone della scuola.
L’unico bocciato della scuola. Cazzo. Cazzo. Cazzo. E ora che gli racconto a mio padre? E mia sorella sarà stata promossa? Speriamo di no, altrimenti le botte le prenderò solo io.
I tre chilometri che mi separano da casa diventano lunghissimi, i fabbricati si allungano sul marciapiede come ombre minacciose. L’aria calda di giugno mi attanaglia la gola, impedendomi di respirare.
Ora muoio in mezzo alla strada. Il mio corpo verrà ritrovato da qualche signore che porta a spasso il proprio cane. Chiamerà l’ambulanza, ma io sarò già morto. Mio padre non mi potrà picchiare perché sarò morto. Anzi, la sua rabbia si trasformerà in pianto. Piangerà come non ha mai fatto. Piangerà mentre il medico legale abbasserà il lenzuolo per mostrargli il corpo senza vita del figlio che ha sempre picchiato. Piangerà perché quel figlio l’avrebbe voluto uccidere lui con le sue mani.
Sul cortile davanti casa, scorgo mia sorella intenta a giocare a pallavolo con delle sue amiche. Ha il viso sorridente come le altre.
È stata promossa. Ha ragione mio padre quando dice che lei è brava, che è meglio di me.
Appena mi vede, smette di giocare con le sue amiche e si avvicina a me correndo.
È stata promossa. Me lo sta venendo a dire. Lei promossa e io bocciato. Che vergogna! Battuto da una
femmina! Le botte stasera saranno tutte per me. Lui scivolerà in camera con la cintura stretta tra le mani e…
“Ale, sei stato a vedere i risultati a scuola?” mi chiede con la sua voce velenosa.
“Sì perché?”
“Allora?”
“Bocciato!”
“Bocciato?”
“Sì, bocciato!”
“Non è possibile! Mi prendi in giro, vero?”
“No, sono stato l’unico bocciato della scuola.”
Guardala. Fa finta di essere dispiaciuta. Che ipocrita! Quando stasera tornerà il babbo lo informerà che mi ha battuto. Che lei è stata promossa e io no. Speriamo che glielo dica dopo cena, altrimenti quello mi ammazza prima che abbia messo qualcosa in pancia. E se gli telefonasse in ufficio? Tornerebbe a casa nella pausa pranzo e… Scomparire o morire? Se scompaio, corro il rischio che la polizia mi ritrovi e mi riporti da mio padre. Non me la farà passare liscia. La sera stessa chiuderà la camera con due giri di chiave e srotolerà nell’aria la cintura che userà per ricordarmi quanto mi vuole bene. Allora forse è meglio morire. Non avrà il coraggio di picchiarmi mentre sono disteso in una bara con gli occhi chiusi. Morire a diciotto anni. Ho sempre pensato che sarebbe stato il cancro a uccidere il mio corpo, all’età di ottanta anni, come è successo a mia nonna. Oppure in un incidente stradale come mia madre. Invece…
“Ale, ti senti bene? Hai un’aria strana?”
“Sono solo un po’ stanco” rispondo, spostando il peso del corpo da un piede all’altro.
“Davvero sei bocciato?”
“Te lo devo dire in cinese?!” sbotto, tirando un calcio ad un sasso che mando a sbattere contro l’angolo del marciapiede.
Mia sorella se ne va via correndo, voltando ogni tanto la testa all’indietro per accertarsi che non la rincorra.
La camera è avvolta nel buio. Il letto è ancora disfatto. I libri sono perfettamente allineati nella parete attrezzata a libreria.
Morire è l’unica possibilità che mi rimane per risolvere i miei problemi. Lo farò, lo farò. Lo farò perché sono stanco delle sue visite notturne.
Anche ieri sera è stato qui. Avevo appena chiuso gli occhi.
La porta si è aperta e lui è scivolato in camera, mescolandosi al buio. Il mio corpo si è irrigidito sotto le coperte, come un pezzo di legno pronto per ardere. La gola è diventata improvvisamente secca.
Mentre avanzava verso di me, ho respirato l’aria marcia che accompagna le sue visite.
Ho tenuto le palpebre abbassate, le mani serrate a pugno distese lungo i fianchi e i piedi accavallati l’uno sull’altro. Non appena ho sentito le coperte scivolare in fondo al letto, ho spalancato gli occhi e ho visto il suo sguardo allucinato su di me. Tra le mani stringeva la cintura che a cena avevo visto inserita tra i passanti dei suoi pantaloni. L’ha srotolata nell’aria con un colpo secco, come fosse un domatore di un circo, poi si è avvicinato a me con passo lento, quasi volesse misurare la mia paura.
Ho tentato di fuggire balzando al lato del letto, ma lui si è mosso con la stessa velocità di un leopardo quando insegue la sua preda.
Con una spinta mi ha mandato a sbattere contro il muro, poi mi ha ordinato di girarmi e di sollevare il pigiama.
Dieci colpi, uno dietro l’altro.
Dieci morsi sul labbro inferiore.
È uscito chiudendo la porta alle sue spalle, lasciandomi immobile davanti al muro con la schiena arrossata dalle sue carezze…

[CONTINUA]